Le illusioni, si dice, durano l’”espace d’un matin!”
Nel nostro caso, sono durate circa tre mesi.
Infatti, dopo poco più di un anno di pausa e di riflessioni, indotte da un Governo, quello gialloverde, che pur fra mille contraddizioni sembrava voler innovare cercando la strada, ahimè in salita, per ridurre l’ormai insostenibile pressione fiscale (ricordate le discussioni sulla ‘flat tax’?), oggi, a poco più di novanta giorni dalla fiducia parlamentare al nuovo Esecutivo giallorosso, qualcosa si è rotto.
L’incantesimo, se mai ci sia stato, che ha tenuto col fiato sospeso gran parte degli imprenditori piccoli e medi italiani, presi in ostaggio dalle sirene di una ventilata revisione della politica economica del nostro Paese a favore di una svolta davvero espansiva, quella cioè che passa dalla riduzione delle tasse e dagli incentivi alla produzione con la conseguente creazione di posti di lavoro, si è bruscamente interrotto e il ritorno alla realtà, quella del “qui non cambia mai nulla”, è stato quanto mai duro e demotivante.
Trincerati dietro lo slogan “abbiamo salvato l’Italia evitando l’aumento dell’Iva”, gli attuali governanti ci hanno calato nel solito e mai sazio tritacarne di tasse, o meglio, “microtasse”, come le hanno cinicamente chiamate, pronte a mordere senza pietà, e senza vergogna, cittadini e imprese italiane. Naturalmente, non è mutata nemmeno la modalità di approccio al nostro debito pubblico e alle istituzioni europee, la cui deferente acquiescenza nei confronti dell’intransigenza di stampo teutonico, non fa che aggravare e incancrenire le prospettive economiche dell’Italia.
Al di là del fatto, e questo è un mio personale ma non isolato parere, che un aumento dell’Iva ‘modulato’, rivolto cioè ai beni di lusso o comunque a quelli non di prima necessità, lasciando invariata l’aliquota per quelli “di base”, come, per esempio ‘pane, latte ecc.’, sarebbe stato più equo e avrebbe demandato ai cittadini la scelta di ridurre alcuni acquisti non necessari liberando in tal modo molti miliardi di euro da destinare a cantieri nuovi e vecchi, ora non c’è più spazio per illusioni e gli imprenditori italiani stanno nuovamente guardando all’estero per capire quale potrebbe essere “l’isola del Tesoro”, cioè lo Stato europeo in cui trasferire le proprie attività prima che l’annunciata asfissia per eccesso di fisco compia per intero quello che promette o minaccia: far chiudere anche quegli imprenditori (sempre meno, in realtà…) che non vogliono arrendersi nonostante i numerosi segnali di allarme rosso.
Assistiamo, così, ad una robusta ripresa dell’esodo di imprese italiane verso aree produttive più accoglienti e sicure.
E questa, detto fra noi, non è una bella notizia, anche se attesa, perché il progressivo dissanguamento e impoverimento del tessuto produttivo italiano, già gravato da gigantesche crisi (Alitalia, ex Ilva ecc.) affrontate con spirito dilettantesco e senza una visione di prospettiva del nostro Paese, non potrà che pesare gravemente sul futuro, più immediato che prossimo, dei nostri figli e delle nostre famiglie. Ma è proprio per salvare loro, figli e famiglie, che rivolgere lo sguardo professionale e imprenditoriale verso altri lidi diventa più una necessità che una scelta, indotta, purtroppo, proprio da chi dovrebbe difenderci e rendere meno proibitivo lavorare e vivere nel “Belpaese”.
Roberto Timelli